Ricorso della regione Lombardia, in persona del presidente pro-tempore della Giunta regionale, on. dott. Roberto Formigoni, rappresentata e difesa, come da mandato a margine del presente atto, ed in virtu' di deliberazione di autorizzazione a stare in giudizio n. VI/511 del 25 luglio 1995, dagli avv. proff. Giuseppe Franco Ferrari e Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, Lungotevere delle Navi n. 30, per conflitto di attribuzione contro il presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore, a seguito e per effetto del d.P.C.M. 23 marzo 1995, "Determinazione dei compensi da corrispondere ai componenti delle commissioni esaminatrici e al personale addetto alla sorveglianza di tutti i tipi di concorso indetti dalle amministrazioni pubbliche", pubblicato in Gazzetta Ufficiale serie gen. n. 134 del 10 giugno 1995, che, dettando una disciplina generale della remunerazione dei membri di commissioni esaminatrici di pubblici concorsi e del personale addetto alla sorveglianza, la applica, con facolta' di aumento o diminuzione dei limiti del 20% alle regioni (e agli enti pubblici non economici che da esse dipendono), non diversamente che agli enti locali e agli enti pubblici non economici. Il d.P.C.M. 23 marzo 1995 (in Gazzetta Ufficiale 34 del 10 giugno 1995) disciplina l'entita' dei compensi da corrispondere ai componenti le commissione di concorso per l'accesso all'impiego presso pubbliche amministrazioni e al personale di vigilanza utilizzato in tale sede. Nelle premesse l'atto in questione richiama a proprio fondamento normativo l'art. 41, primo comma, del d.-lgs. n. 29/1993, che dispone l'emanazione di un regolamento, da adottarsi in forma di d.P.R., per la disciplina della composizione e degli adempimenti delle commissioni, e il d.P.R. n. 487/1994, "Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalita' di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi", il cui art. 18 demanda appunto ad un d.P.C.M., da adottarsi di concerto con il Ministro del tesoro, la determinazione, per tutti i tipi di concorso, dei compensi ai membri e al personale di vigilanza, nonche' l'aggiornamento di essi con periodicita' triennale. Su tali presunti fondamenti normativi, e sulla base di un richiamo generico e di stile alla professionalita' e all'impiego richiesti per lo svolgimento delle relative funzioni, il d.P.C.M. impugnato con il presente ricorso quantifica e assegna ai commissari compensi base (artt. 1 e 3), integrativi (artt. 2 e 3), fissa limiti al loro cumulo (art. 4), disciplina le ipotesi di articolazione delle commissioni in sottocommissioni (art. 5), di dimissioni o decadenza dei commissari (art. 6), individua il trattamento dei comitati di vigilanza (art. 7). Infine l'art. 8 stabilisce che "le regioni e gli enti pubblici non economici da esse dipendenti, le province, i comuni, le comunita' montane, e loro consorzi, nonche' gli enti pubblici non economici possono stabilire nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, compensi aumentati o diminuti del 20% rispetto a quelli stabiliti dal presente decreto". Tale ultima previsione, insieme con le precedenti in quanto da essa estese alle regioni, invade la sfera delle attribuzioni regionali per i seguenti motivi di D i r i t t o 1. - Violazione degli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, anche in riferimento al d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 e ai dd.P.R. 14 gennaio 1972, nn. 1-6 e 15 gennaio 1972, nn. 7-11. 1.1 - La disciplina normativa impugnata e' adottata nella forma del d.P.C.M. di concerto con il Ministero del tesoro. Si puo' in prima battuta - ad essere generosi - ipotizzare che si tratti di un regolamento, pur atipico rispetto alle cinque fattispecie elencate nelle lettere a-e dell'art. 17 della legge 23 agosto 1988 n. 400. Ma se fosse corretta questa interpretazione, andrebbe allora richiamata la costante giurisprudenza della Corte secondo cui un regolamento, persino quando configurato come atto di esecuzione di legge statale, non puo' porre norme intese a limitare la sfera delle competenze delle regioni in materie ad esse attribuite. E cio', sia in omaggio alle regole costituzionali sull'ordine delle fonti, sia per espressa disposizione dell'art. 17, primo comma, lett. b), e comma 3 della legge 400/1988 (cfr. ad es. sentenze 49/1991, 204/1991, 391/1991, 465/1991, 461/1991). Nella specie, la materia disciplinata dal d.P.C.M. impugnato rientra senz'altro nella competenza legislativa regionale in tema di personale di cui all'art. 117 Cost. e nella parallela e coestensiva competenza amministrativa regionale di cui all'art. 118 Cost., mentre manca la specifica base normativa primaria, che non puo' essere rappresentata, tra le disposizioni citate nella premessa dello stesso d.P.C.M., dall'art. 41 del d.-lgs. n. 29/1993, che si riferisce ai profili ben diversi e non pertinenti della disciplina dello stato giuridico dei dipendenti di pubbliche amministrazioni, ne' tanto meno da alcuna disposizione del d.P.R. n. 487/1994, che ha natura soltanto regolamentare. La regione si trova dunque a dover soggiacere a una disciplina di dettaglio, e non di mero principio, in materia di propria competenza legislativa e amministrativa, sulla base di un regolamento del tutto privo di specifico fondamento legislativo. Che poi le regioni possano "nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti", aumentare o diminuire i compensi per i commissari ed il personale di vigilanza entro i limiti del 20%, non modifica ne' attenua la gravita' della lesione della sfera di autonomia regionale costituzionalmente garantita descritta piu' sopra. 1.2. - In alternativa, il d.P.C.M. impugnato potrebbe con qualche sforzo venire configurato quale atto di indirizzo e coordinamento. Ma anche in tal caso trova piena applicazione la massima giurisprudenziale, limpidamente elaborata dalla Corte, secondo cui "l'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento dell'attivita' amministrativa delle regioni e' soggetto all'osservanza di precisi requisiti di forma e di sostanza: di forma, perche' l'atto di indirizzo e coordinamento deve essere approvato, con delibera, dal Consiglio dei ministri; di sostanza, perche' occorre idonea base legislativa per salvaguardare il principio di legalita' sostanziale" (sentenza n. 45/1993 e, tra le tante, 113/1994). Come si e' dimostrato piu' sopra, quanto ai profili sostanziali non e' dato nella specie reperire alcuna idonea base legislativa. E, quanto ai profili formali, non v'e' traccia, nelle premesse dell'atto, di alcuna deliberazione di Consiglio dei ministri, salva prova contraria da fornirsi dalla difesa erariale. Tale circostanza parrebbe confermata anche dal fatto che il decreto e' stato adottato di concerto con il Ministro del tesoro: o il concerto e' un mero rituale privo di senso, o e' stato adottato a mo' di improprio surrogato della deliberazione consiliare, come se la forma corretta potesse essere cosi' realizzata indirettamente. Mancano dunque del tutto anche i requisiti formali per il legittimo esercizio della potesta' di indirizzo e coordinamento. Giova in concreto ricordare cha la regione Lombardia ha da tempo utilizzato la propria competenza legislativa in materia, sin dal 1979 (l.r. 6 ottobre 1979, n. 54, con particolare riguardo all'art. 12), aggiornamento continuamente tale disciplina (l.r. 22 novembre 1982, n. 63; l.r. 30 dicembre 1994, n. 47 e l.r. 10 marzo 1995, n. 10, art. 7, terzo comma). 2. - Violazione degli artt. 3, 5, 97 e 118 della Costituzione con riferimento al d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 e ai dd.P.R. 24 gennaio 1972, nn. 1-6 e 15 gennaio 1972, nn. 7-11. Il d.P.C.M. compromette gravemente anche la capacita' organizzativa della regione nelle materie - praticamente tutte di sua competenza - nelle quali vengono utilizzate le risorse organizzative consistenti nel personale. La regione e' infatti privata della potesta' di disciplinare in modo autonomo le modalita' della remunerazione del personale utilizzato in sede concorsuale, e cosi', in ultima analisi, di operare autonome e responsabili scelte organizzative relative alla gestione dell'elemento personale degli uffici, che si radicano nei principi di efficienza e buon andamento costituzionalmente garantiti. I necessari margini di autonomia organizzativa non sono certo assicurati dalla percentuale del 20%, ne' ad essa puo' ridursi la differenza tra norma di principio e norma di dettaglio (ammesso e non concesso che nella specie sia comunque reperibile un fondamento normativo privato). 3. - Violazione degli artt. 5, 119 e 81 della Costituzione, in riferimento al d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 e ai dd.P.R. 14 gennaio 1972, nn. 1-6 e 15 gennaio 1972, nn. 7-11. L'autonomia finanziaria e di spesa della regione e' anch'essa gravemente pregiudicata da una disciplina che, predeterminando con modesti margini di flessibilita' l'importo dei compensi da erogare per lo svolgimento dei concorsi, preclude alla regione di esercitare autonome scelte finanziarie e di spesa, con doppio possibile esito, comunque fatale. Ove infatti la regione intendesse erogare compensi inferiori alla soglia statale diminuita del 20%, essa si vedrebbe obbligata ad aumentare impegno e spesa, senza avere autonomamente formulato proprie scelte organizzative in tal senso. Ove, al contrario, essa intendesse maggiorare la sua spesa, portandola oltre il 20% della "base" definita dallo Stato, nell'ambito di una potesta' organizzativa esercitata nella direzione dell'impegno piu' qualificato per la qualita' e l'efficienza della propria azione selettiva, si vedrebbe impedita e bloccata. In entrambe le evenienze sarebbero lesi l'autonomia finanziaria della regione e il connesso prinicipio della commisurazione delle spese pubbliche (anche regionali) al peso effettivo dell'azione amministrativa. Nella prima, peraltro, con l'aggravante che sarebbe compromessa anche la primaria esigenza di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica (frequentemente sottolineata da codesta ecc.ma Corte), specialmente nel suo intimo collegamento con la garanzia della disponibilita' delle risorse economiche delle autonomie territoriali, costituzionalmente preveduta. Il d.P.C.M. 23 marzo 1995 deve dunque ritenersi illegittimo nel suo complesso e con particolare riguardo all'art. 8.